12 Settembre 2018 -- Qualcuno dice che io sono nato vecchio, e forse ha ragione. Ma la mia è anche una scelta di vita. I miei genitori mi hanno avuto da giovanissimi, e io li ho sempre visti come tali.
E da piccolo non ho mai trascorso una serata senza di loro a casa. Non c’erano soldi per uscire la sera, era normale che quei pochi che avevamo in casa dovessero servire per il futuro di noi figli.
Ho imparato a fare i calcoli del bilancio familiare con un occhio sempre puntato al futuro, ma anche alla condivisione. Ho vissuto la condizione di ragazzino povero al quale la famiglia ha cercato di non far mancare nulla. Ed è un po' come se mi portassi sempre dietro il peso di questa responsabilità: mamma e papà rinunciavano a divertirsi pur di aiutarmi a raggiungere il grande sogno. Anche adesso che di soldi ne ho tanti, che mi posso considerare un uomo fortunato, non riesco mai a dimenticare chi ero e cosa facevo. C'è però un episodio in cui ho fatto un'eccezione, e anch'io mi sono lasciato un po' andare. Me lo ricordo bene: musica, alcol e tanta, tantissima gente, che ci guardava attraverso una parete di cristallo. Era la prima volta per me in una discoteca con i compagni di squadra.
Lavezzi aveva insistito così tanto che mi seccava recitare sempre la parte del bravo ragazzo che persino dopo un grande trionfo tornava a casa senza darsi alla pazza gioia. Di discoteche ne ho sempre viste pochissime (...) Ma quella volta, nel maggio 2012, con Lavezzi e un altro gruppo di compagni del Napoli, fu diverso. Volevo sentirmi come gli altri, come non era mai successo prima: un ragazzo che aveva appena vinto un trofeo con il Napoli e aveva il diritto di lasciarsi andare. Ecco, sì. In effetti mi lasciai andare. La Coppa Italia mancava al Napoli da diciassette anni, e in quella partita straordinaria contro la Juventus avevo anche segnato il gol del definitivo 2-0, dopo il quale mi ero inginocchiato, commosso, davanti ai tifosi impazziti. Nello spogliatoio i miei capelli erano stati rasati a zero dal Pocho Lavezzi, che poi non volle sentire ragioni: «Stasera non torni a casa!». Festeggiammo insieme a tutta la città su un autobus scoperto e la serata proseguì in discoteca. Senza mogli né figli. Per la prima volta bevvi tanto champagne. Guardavo la folla attraverso il vetro e Napoli mi apparve diversa. Una città piena di vita, che ama divertirsi, certo. Una città dove il confine tra giusto e sbagliato è spesso molto labile. Dove è facile cadere nelle tentazioni e altrettanto semplice pagarne le conseguenze. Una città che quando c'è da festeggiare non bada a spese. E quella sera Napoli festeggiava con noi la Coppa, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di brindare con i protagonisti dell'impresa.
(...) Non mi piace essere al centro dell'attenzione. Un gol, la vittoria e poi l'esultanza: tanto mi basta per sentirmi euforico. Devo ammettere che non ho mai capito le foto a tutti i costi, i bambini che ti saltano addosso per un autografo. I miei tifosi sanno che se non è il momento dico di no. Anche ai bambini. Quante volte mi sono sentito dare del maleducato... Per fortuna ho un carattere forte e vado avanti per la mia strada. Il fatto è che Napoli, con il suo affetto, è meravigliosa, ma se non si pongono limiti tende a invadere la tua sfera privata. Un ragazzino, una volta, mi affrontò a viso aperto. Mi disse: «Hamsík! Ti devi fare una foto». Io alzai la mano, disturbato, come a dirgli: non ora. Ebbene, mi riempì di insulti. (...) Invece nel locale della festa persi completamente la bussola. Prima di tornare a casa dissi al Pocho: «Grazie, mi hai fatto conoscere una città diversa». Poi, ho ristabilito le distanze, come sempre. Perché il mio compito non è festeggiare ogni partita vinta insieme alla città, ma impegnarmi al massimo, insieme ai compagni, affinché il Napoli regali alla città altri titoli da festeggiare sul serio.
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