12 Ottobre 2007 -- L’ultimo stadio è un luogo triste e inaccessibile da cui è meglio tenersi distanti, se già non provvedono a obbligarti le autorità. Loro hanno mille giustificati motivi per farlo. E forse, in una fase storica di transizione, questo è il necessario prezzo da pagare perché gli stadi di calcio diventino finalmente zone sicure e per tutti. Ma la sensazione — e la frustrazione — di molti tifosi «normali», non ultrà, oppure ultrà che non hanno mai fatto male a una mosca e avrebbero solo il bizzarro vizio di andare allo stadio tra amici con bandiere, striscioni e canti, è che ci si stia spostando da un estremo all’altro.
Dal «liberi tutti» di prima agli attuali ostacoli che, partendo da un tornello, arrivano al caso limite delle gare a porte chiuse. Nato l’anno scorso in piena emergenza per il caso Raciti, il provvedimento è già stato riproposto quest’anno in serie A per Napoli-Genoa. Delle due l’una: o l’emergenza non è finita oppure la tendenza è a perseguire la via più comoda. Come se per fronteggiare i pirati della strada si decidesse di chiudere la circolazione a tutti. Aggiungiamo tutto ciò alle note fatiscenze dei nostri stadi, alla sproporzione tra i prezzi dei biglietti e la qualità degli impianti, e alla grande varietà dell’offerta tv, e la domanda diventa ovvia: ha ancora senso andare allo stadio? Alla vigilia di nuovi possibili interventi restrittivi su Roma-Napoli e Livorno-Lazio, basta un rapido elenco dei piccoli grandi problemi di una giornata allo stadio per capire che la risposta, per il tifoso che alla partita vorrebbe andare solo per divertirsi e tifare, è una sola: no, non ha senso.
Lungaggini — Comprare il biglietto (prezzi a parte) è diventata una prassi complessa, entrare allo stadio pure, fra code, tornelli, perquisizioni. Decidere di andare alla partita è come pianificare un viaggio, ma senza il piacere del viaggio. Vale ancora la pena?
Scomodità — Gli stadi italiani sono notoriamente fra i peggiori d’Europa. Il problema è antico, la soluzione è lontana, soprattutto se la costruzione di impianti adeguati dipende solo dall’organizzazione di una grande manifestazione (come fu, mal sfruttata, Italia ’90, e come si sperava potessero essere gli Europei del 2012).
Tristezza — Fare scenografie è diventato quasi impossibile. Così i colori scompaiono dal tifo e impera il grigiore. In compenso, fumogeni o striscioni razzisti non mancano mai. Senza contare — è noto anche alle autorità — che proprio la libertà di scenografia (non di insulto, si capisce) può diventare un deterrente ad altri sfoghi.
Niente trasferte— Il divieto, facendo di ogni erba un fascio, toglie il piacere del viaggio a molti tifosi pacifici. Ma ci sono ulteriori sfumature che fanno riflettere. Si pensi, per esempio, alla tifoseria della Juve, cui è stato impedito il viaggio a Firenze. Quella bianconera, come tutte quelle delle grandi squadre, è una tifoseria assai diffusa su tutto il territorio italiano, spesso più presente in trasferta che in casa: proibendo l’acquisto del biglietto ai tifosi lontani vengono penalizzate molte persone che, per esempio al Sud, decidono di spostarsi in zona per vedere la loro squadra. Ma che colpe precise hanno costoro, a parte quella di non vivere a Torino?
Altri rischi — Da ciò poi discendono nuovi rischi. O il tifoso rinuncia del tutto a muoversi, oppure si attrezza per andare comunque allo stadio in mezzo ai tifosi avversari. È successo a Milano per Inter-Napoli: con il settore ospiti chiuso, oltre un migliaio di tifosi partenopei, comprato il biglietto in Lombardia, si sono sistemati a stretto contatto con i tifosi nerazzurri, con un potenziale rischio per entrambi. Tutto per fortuna è andato bene, ma questo è un caso in cui il rimedio poteva diventare peggiore del male. Che cosa accadrebbe infatti se, a causa della chiusura dei settori ospiti, sistemati in tinello i tifosi normali, gli ultrà si sguinzagliassero liberi per le tribune?
La domanda non è oziosa. E la risposta — in attesa di un mondo fantascientifico in cui tutti i tifosi si mischieranno in pace e amore come a Woodstock — non può essere solo il divieto generalizzato. Neanche se questo è più facile dell’isolamento del singolo colpevole. L’unico che deve davvero stare fuori dallo stadio.
Alessandro Pasini
Fonte:Corriere della Sera