09 Ottobre 2007 -- Un cronometro nel cervello, un timer tra i capelli, una clessidra dinnanzi agli occhi e una missione da compiere: stupire, stupire, stupire a oltranza, affinché nessuno potesse nutrire dubbi, affinché non ci fossero perplessità, affinché la smettessero di dargli del ‘vecchio’, di menarla con la storia dell’Altafini post-moderno. Mezz’ora e via, a passo di tango, a colpi di testa, a tap in rubati; mezz’ora di Roberto «el pampa» Sosa, per risistemare Napoli, per rimetterlo in carreggiata, per dar fiato a chi gioca, per dar speranza a chi sogna: “Io so bene qual è il mio ruolo, non ho pretese: quando vogliono, sono qua”.
Ha giocato 94’ segnando tre volte; Udine, Livorno, San Siro, tre volte Sosa, tre volte il dubbio ad ornare gli stacchi imperiosi, le zampate furtive: allora, Reja? “Le gerarchie le conoscete, e non nascono così per caso. Zalayeta ha dato in avvio, ora potrebbe dare di più: ma capita ad un giocatore di vivere un momento di appannamento, però dal punto di vista tattico lui mi concede sempre tanto”.
Novantaquattro minuti complessivi di Roberto «el pampa» Sosa, sette gare racchiuse praticamente in una partita con recupero, un avvio bruciante arricchito di presenze sempre palpabili, d’atteggiamenti mai al di sopra delle righe, d’una educazione indiscutibile, d’un rispetto assoluto per il ruolo e per le competenze: “Non mi pesa stare in panchina, so quel che il Napoli s’aspetta da me” .
L’uomo della provvidenza, trentadue anni e una valanga di reti sparse qua è là tra L’Europa e il Sudamerica, ha però voluto esagerare, s’è caricato il Napoli sulla corazza ed ha provveduto a modo suo ad occultare la crisi di Zalayeta, l’uragano-uruguyano d’inizio stagione ridotto a venticello di tramontana: tre gol in appena novantaquattro minuti di gara rappresentano nel loro piccolo un primato di cui andar fieri, di cui rallegrarsi, di cui godere. Il Sosa usa e rigetta in panchina è un investimento a pronto-medio-lungo termine che il Napoli lascia fruttare dall’estate del 2004, usata per ricostruirsi, per riemergere dalle ceneri del fallimento, per mostrare che con oculatezza il calcio può avere un futuro. Il Sosa che entra e segna, che s’accontenta degli scampoli di partite per mostrare di che pasta è fatto, che fa da chioccia a Lavezzi e tranquillizza Zalayeta è semplicemente l’interesse attivo di quei trecentomila euro sborsati tre anni fa per averlo dall’Udinese. Il Sosa che ne fa tre in appena sette giornate, pardon in soli novantaquattro minuti, è anche il contraltare, in termini rigorosamente statistico-aritmetici, degli Ibrahimovic e dei Trezeguet, dei Kakà e dei Totti, stelle inarrivabili, inavvicinabili, però sistemate per un’effimera soddisfa¬ione alle proprie spalle. Tutti dietro, così come Cruz e Iaquinta, specialisti del gioco poco ma segno: 1 gol ogni 68’ il primo, 1 ogni 57’ l’altro.
Il Sosa di oggi è simile al Sosa di ieri, quel gigante buono che un anno fa - ad un certo punto - spinse Reja a spedirlo in campo sin dall’inizio, per star vicino a Calaiò, per dar chili e centimetri e serenità al Napoli. Il Sosa che segna ora è una rivincita personale contro i luoghi comuni d’un calcio a volte cieco: aveva ventinove anni quando scelse di ripartire dalla serie C, quando optò per le emozioni del San Paolo, il Santuario nel quale s’era esibito il suo Maradona, quando prese il coraggio a due mani e si rimise in discussione. Novantaquattro minuti, tre reti e la certezza per il Napoli di poter aver sempre due spalle su cui andare a riparare: mezz’ora sola, ti vorrei; mezz’ora, Sosa, ti vorrei....
Antonio Giordano
Fonte: Corriere dello Sport