04 Settembre 2007 -- L’evoluzione moderna, anzi postmoderna di quello che una volta si chiamava catenaccio. Reja erede, ma globalizzato, di Karl Rappan e Nereo Rocco, di mago Helenio Herrera ma anche di Cesare Maldini e Giovanni Trapattoni che i loro calcistici «lucchetti» li portarono pure ai Mondiali di Francia e di Korea e Giappone. Ma non è un’offesa. Anzi, tutt’altro. È con questo sistema, infatti, che esaltando e sfruttando le caratteristiche dei suoi, Reja ha cambiato, riorganizzato, rinnovato il Napoli sino a fargli giocare la miglior partita degli ultimi dieci anni. Dando di lucido anche all’entusiasmo e, perchè no, ai sogni proibiti e per pudore ancora poco raccontati del popolo del tifo.
Un entusiasmo che non lascia indifferente Reja. «Sì, credo che dopo aver allenato in una città di calcio come Napoli sarebbe difficile trovare stimoli per lavorare altrove», ha spiegato ieri ritirando i «Tre soldi goriziani», l’onorificenza che la sua città, Gorizia appunto, riserva a chi sa darle lustro. Napoli ultima esperienza, insomma. Reja lo ribadisce, mentre si mostra preoccupato per gli eccessi che l’ultima cinquina potrebbe scatenare. «Ora - dice - si parlerà già di un Napoli da Champions. Fa parte del calore e del colore dei napoletani che sono straordinari anche se ogni tanto devo sopportare qualche offesa».
Catenaccio, si diceva. Ma che tipo? Qual è il modello Reja? Semplice. È quello che s’affida a un’idea italiana e a una manodopera italosudamericana per un disegno tattico che sembra, ma sembra soltanto, un paradosso: dare campo all’avversario per poterne avere di più a disposizione nelle ripartenze. Ovvero: offrirsi alla pressione di chi sta di fronte opponendo una gran bella fase difensiva (distanze brevi tra centrocampo e attacco), tenersi basso apposta per lanciare negli spazi fulmine Lavezzi, cacciatore di profondità come nessun altro in questa squadra, un «matto» che fa ammattire i difensori. Una trappola, insomma, quella che Reja piazza sul campo. Un catenaccio aperto che poi scatta e si richiude appena l’avversario ci si ficca dentro.
Questa la nuova filosofia del gioco azzurro. Così il Napoli è cambiato. Così ha incantato e bastonato l’Udinese. E poi? E poi il carattere, il temperamento. Roba che non s’acquista al Quark Hotel e che bisogna tirar fuori quando occorre. E che occorresse il Napoli l’ha capito dopo gli schiaffi rimediati all’esordio a Fuorigotta, quando le prese senza avere neppure il coraggio di reagire. Ebbene, quella squadra sbrindellata (poi già migliore in coppa col Livorno) il coraggio l’ha trovato sette giorni dopo. Sì, a Udine il Napoli è diventato gruppo. In campo gente che s’aiuta, si dà forza, s’incoraggia, che ha capito che senza carattere e orgoglio e voglia di successo non va proprio da nessuna parte.
A cura di Francesco Marolda
FONTE: ilMattino.it